Lingotti a perdita d'occhio!
Pubblicato in Attualità
ei giorni scorsi, incuriosita da una recensione, ho acquistato il testo di Salvatore Rossi, dal titolo ‘L’Oro’. Rossi è Direttore Generale della Banca d’Italia, e propone una lettura da una angolatura diversa rispetto alle consuete pubblicazioni sull’argomento. Non mancano aneddoti, racconti, dati sorprendenti.
Vi propongo la lettura del capitolo intitolato: Nei sotterranei della Banca d’Italia, oggi.
Mi è capitato raramente di scendere nei sotterranei in cui sono custodite le nostre riserve auree, per accompagnarvi ospiti d’eccezione. Si trattava di una troupe televisiva, che intendeva fare un servizio sull’oro della Banca d’Italia per una nuova trasmissione dedicata a luoghi istituzionali e artistici. Altre volte avevo compiuto questa specie di viaggio iniziatico agli inferi, quasi sempre accompagnando qualcuno, ma non più di quattro o cinque volte in oltre quarant’anni. La mia prima ‘discesa’ avvenne nel 1976. Ero stato appena assunto alla Banca d’Italia e quella breve visita era un segnale di riconoscimento e di distinzione a quel tempo offerto ai giovani vincitori dei difficili concorsi della Banca. Da quella esperienza ricordo il senso di chiusura, di soffocamento. Poi un lungo intervallo di qualche decennio, infine le altre visita nella veste di accompagnatore. Il senso di soffocamento è in me del tutto scomparso, forse semplicemente a causa della illuminazione degli ambienti, nel frattempo cambiata e più forte. Visitare le ‘sacristie’ dell’oro in Banca d’Italia non è facile.
Il sito della Banca lo dice chiaro: ‘La possibilità di visitare le riserve auree della Banca d’Italia, custodite presso Palazzo Koch, è stata riservata ai rappresentanti delle Istituzioni e, in rari casi, a giornalisti e cineoperatori per l’esecuzione di riprese preventivamente autorizzate. Infatti, i locali nei quali l’oro è conservato sono stati progettati in modo tale da garantire permanentemente la sicurezza dei valori, nel presupposto che l’accesso di persone sarebbe stato limitato ai casi strettamente indispensabili; gli ambienti sono situati nei sotterranei del Palazzo e privi di finestre (il ricambio d’aria è assicurato da appositi impianti di aereazione) e per l’evacuazione di emergenza è necessario utilizzare una scala a chiocciola in ferro battuto, stretta e ripida. Conseguentemente, le visite sono sempre state brevi, organizzate con largo anticipo e circoscritte a un numero ristretto di visitatori, nel rispetto di specifiche procedure volte a tutelare la riservatezza e la sicurezza dei luoghi, senza mettere a repentaglio la salute dei visitatori. ’
La troupe di cui prima parlavo era composta dal conduttore della trasmissione, da due addetti alle riprese e da un registra. Io facevo loro da Virgilio, ma eravamo a nostra volta accompagnati e controllati da diversi funzionari della Banca d’Italia. Il conduttore, uomo intelligente ed esperto delle cose del mondo, e tutti i suoi collaboratori non potevano nascondere di star vivendo un momento non usuale; la loro curiosità era molto viva di fronte alla lunga teoria di chiavi, di funzionari, di ascensori blindati, di botole, e anche di ‘liberatorie’ da firmare; e di occhi sempre pronti a vigilare sul loro benessere, ma anche sulla sicurezza del luogo e del suo contenuto, per quanto noti fossero il personaggio e l’emittente televisiva che avrebbe trasmesso il servizio.
Infine, l’oro.
Una distesa di oro, un mare di oro, montagne di oro. Lingotti a perdita d’occhio.
Questo, credo, c’è di comune fra i visitatori del passato e del presente: lo sbigottimento di fronte alle montagne d’oro distese davanti agli occhi. In gran parte i lingotti sono conservati in armadi metallici, con delle grate al posto delle pareti, ma molti sono adagiati per terra, in lunghi cumuli ordinati.
Io facevo la mia parte di guida, ogni tanto sbriciando gli occhi dei miei collaboratori per avere tacita approvazione a ciò che dicevo. Avevo prima cercato di spiegare la funzione dell’oro nei sistemi monetari moderni: ormai non più standard a cui commisurare la ‘moneta fiduciaria’ in circolazione, ma solo di estremo baluardo della solvibilità internazionale del Paese. Poi avevo affrontato la questione, politicamente complessa, della proprietà di quell’oro, concludendo su precisa domanda del conduttore, che senza alcun dubbio, in ultima analisi quell’oro era, è del popolo italiano.
Eravamo poi passati alle curiosità tecniche.
Che cosa sono quei segni, quegli sbreghi, su molti lingotti? Sono le ‘unghiate’, rispondevo, cioè dei prelievi di metallo che occasionalmente si fanno, a campione, per verificare che il ‘titolo’ dichiarato, cioè la quantità di oro fino, puro, sia corretto: la stragrande maggioranza dei nostri lingotti, ha un titolo molto alto.
Finalmente arrivammo davanti ai lingotti più interessanti dal punto di vista della curiosità storica: quelli marchiati o con la falce e il martello dello Stato sovietico e con le svastiche naziste. Questi ultimi innescarono il ricordo del faticoso recupero dell'oro della Banca d’Italia portato via dai tedeschi nel settembre del 1943. In quella occasione dissi che l’oro razziato era quasi tutto scomparso, ma commisi una imprecisione; in realtà fu in gran parte recuperato negli anni successivi.
Perché quel racconto d’altri tempi: Il racconto innesta elementi di fantasia su un episodio storico vero, raccontato fra gli altri dagli archivisti della Banca d’Italia, Sergio Cardarelli e Renata Martano. Quest’ultima mi ha poi aiutato controllando l’aderenza del racconto alla verità storica. Del tutto di fantasia sono il personaggio del protagonista, Vittorio Piovesan, e l’episodio finale del suo gesto di nascosta ribellione. Sono anche di fantasia molti dettagli del tentato inganno. Ma non tutti: ad esempio le parole messe in bocca al capufficio di Vittorio, da ‘si può accedere’ a ‘non è in luogo’ sono tratte dalla testimonianza di Niccolò Introna, vicedirettore generale e commissario straordinario della Banca d’Italia al processo Azzolin.
Come è puntualmente documentato nel libro citato, a cui faccio rimando per ogni dettaglio di questa complessa vicenda, l’oro della Banca d’Italia fu preso dai tedeschi che occupavano Roma e spedito prima a Milano, poi a Fortezza, in Alto Adige, poi in Germania. Le ragioni che spinsero il governatore Azzolini a dare il fatidico contrordine che annullò il tentato inganno di nascondere parte dell’oro nell’intercapedine che circonda il caveau, per occultarlo ai tedeschi in arrivo, furono oggetto di un’aspra vicenda giudiziaria dopo la liberazione di Roma. Azzolini fu incriminato e condannato, oltre che per la sua adesione al fascismo, per quell’episodio in particolare. Si vide comminare trent’anni di carcere. Ne scontò due, poi beneficiò dell’amnistia ‘Togliatti’. Nel 1948 la Corte di Cassazione annullò comunque la sentenza di condanna. Fu probabilmente determinante, per la decisione finale del governatore di smontare il disegno e rassegnarsi a consegnare l’oro ai tedeschi, la notizia che Potenza, città in cui si sarebbe fatto finta di avere inviato mesi prima parte delle riserve auree, scelta perché si pensava che fosse caduta o stesse per cadere in mano anglo-americana, era invece ancora saldamente in mano tedesca, sicché il rischio che l’inganno venisse scoperto era alto.
Dopo la fine della guerra iniziò un’ardua e faticosa opera di ritrovamento e di recupero di quell’oro, che le autorità tedesche avevano sparpagliato in vari luoghi, erano state portate via dai sotterranei della Banca d’Italia in Roma circa 120 tonnellate. Da Fortezza si mosse per andare in Germania una prima partita di 50 tonnellate nel febbraio del 1944, poi una seconda di 23 destinate alla Svizzera in aprile, e una terza di 22 ancora in Germania in ottobre. Il resto (23 tonnellate) rimase a Fortezza.
La spedizione in Svizzera appare particolarmente interessante. Si trattava di onorare un pegno di oro stipulato negli anni precedenti dal governo italiano a garanzia di prestiti in valute pregiate all’Italia da parte della Banca nazionale svizzera, la banca centrale elvetica con sede a Berna, e della Banca dei regolamenti internazionali, un organismo internazionale con sede a Basilea, prestiti ormai non più rimborsabili. A volere la spedizione dell’oro furono sia gli italiani (per quel che poteva ancora contare la loro opinione) sia i tedeschi. Quanto ai primi si può capire, ma i secondi? Evidentemente per il governo tedesco la Svizzera e le sue istituzioni finanziarie erano comunque essenziali e andavano rispettate e onorate. Anche perché se, per esempio, si voleva vendere oro sul mercato, era lì che si poteva tentare di farlo. E non dimentichiamo che i tedeschi avevano portato via l’oro dall’Italia e da altri paesi anche con l’idea di servirsene per finanziarie le spese belliche. Le partite spedite in Germania furono divise fra le sedi di Reichsbank (la banca centrale tedesca del tempo) e del ministero degli Esteri, entrambe a Berlino. Quando le sorti della guerra si misero davvero male per la Germania, tra la fine del 1944 e i primi mesi del 1945, l’oro italiano fu portato via da Berlino e nascosto parte in una vecchia miniera di potassio in Turingia, parte nello Schleswig-Holstein e in parte in Austria.
Gli allegati anglo-americani iniziarono a ritrovare qua e là partite di oro sottratte dai tedeschi in vari paesi europei. Nel settembre del 1946 decisero di farle confluire tutte in un pool e di iniziare a restituirle ai legittimi proprietari dopo averne accertato provenienza e diritti.
Il pool e la Commissione che lo gestiva furono chiusi solo oltre mezzo secolo più tardi, nel 1998. All’Italia furono assegnate in restituzione 47 tonnellate, che, sommate alle 25 ritrovate a Fortezza dagli americani e restituite nel 1947 senza passare dal pool, fanno 72. Tenuto conto delle 23 finite giustamente in Svizzera e quindi non rivendicate, mancano all’appello circa 23 tonnellate. Come dicono Cardarelli e Martano nel loro libro è tutto ciò che dell’oro italiano i tedeschi riuscirono presumibilmente a vendere sul mercato. Dunque gran parte dell’oro sottratto durante l’ultima guerra è rientrato nel caveau della Banca d’Italia. I lingotti con impressa una svastica, con cui i tedeschi vollero rimarcare la nuova proprietà dell’oro, ne sono parte.
La quantità di oro posseduta dalla Banca d’Italia alla vigilia del ‘sequestro’ tedesco era al minimo della sua storia cinquantennale. Nel 1893, anno della fondazione della Banca, i tre istituti di emissione che si fusero nella neocostituita banca centrale (la Banca nazionale del Regno d’Italia, la Banca Nazionale toscana, la Banca toscana di credito) conferirono le proprie dotazioni auree, dando luogo a un tesoro iniziale di 78 tonnellate di oro fino, per gran parte provenienti dalla Banca nazionale del Regno.
Nel 1926, con l’attribuzione del monopolio esclusivo delle emissioni di banconote alla Banca d’Italia, il Banco di Napoli e il Banco di Sicilia cedettero le proprie riserve auree, pari a circa 70 tonnellate, provenienti peraltro quasi per intero dal Banco di Napoli, consentendo alla Banca d’Italia di avvicinarsi alle 300 tonnellate di oro di riserva. Questa aumentò ancora, grazie a varie acquisizioni, fino a superare le 560 tonnellate nel 1933.
La riserva aurea iniziò da allora a decrescere a causa della politica di puro prestigio internazionale che il governo italiano perseguì in quegli anni. Il Regno Unito abbandonò l’obbligo di convertire in oro le banconote in sterline già nel 1931 (sul gold standard, di cui quell’obbligo era il fulcro, ne parlerò più avanti). Gli Stati Uniti seguirono nel 1933, e così fecero poi altri paesi. Rimasero fermi alla convertibilità in oro delle proprie valute nazionali i paesi del cosiddetto ‘blocco dell’oro’ (Svizzera, Francia, Paesi Bassi, Belgio, Polonia e Italia), al costo di una notevole perdita di riserve auree.
La Banca d’Italia che ricominciava a operare nell’Italia di nuovo unificata, alla fine di aprile 1945, disponeva di una riserva aurea di solo 22 tonnellate. Durante la ricostruzione e negli anni del ‘miracolo economico’ l’esplosione della capacità esportativa italiana determinò avanzi ripetuti della bilancia dei pagamenti di parte corrente e afflussi di riserve ufficiali in valute estere. Questo ultimi furono in parte usati dalla Banca d’Italia per acquistare partite di oro. Le riserve auree crebbero fino a oltre 1.400 tonnellate nel 1960. Guido Carli, divenuto governatore della Banca quell’anno, fu l’ultimo a volere, durante il suo incarico durato quindici anni, ulteriori acquisti di oro da destinare a riserva. L’ultimo acquisto avvenne nel 1973. Alla fine di quell’anno la quantità di oro detenuta dalla Banca aveva quasi raggiunto le 2.600 tonnellate. Anche molte altre importanti banche centrali, fra cui quelle tedesca e francese, incrementarono molto in quegli anni la quantità delle proprie riserve d’oro.
L’ultima volta che la quantità fisica di oro nelle riserve della Banca d’Italia mutò fu in occasione della creazione dell’Euro e della Banca Centrale Europea. Nel 1998 la Banca d’Italia conferì 141 tonnellate delle sue riserve auree alla neocostituita Bce, per contribuire a formare la dotazione di riserve ufficiali di quest’ultima. Dopo di ciò, la riserva aurea italiana si attestò sulle attuali 2.452 tonnellate: poco più di 4 tonnellate in forma di monete (quasi 900.000 pezzi!), il resto in lingotti.
Come è fatta fisicamente questa riserva?
La maggior parte dei lingotti è di tipo tradizionale, con la sezione trasversale a forma di trapezio, ma diversi esemplari si presentano come dei mattoni (tipo americano), o dei panetti di burro (tipo inglese). Il peso dei singoli lingotti va da un minimo di 4,2 ad un massimo di 19,7 chili. Il titolo medio dei lingotti, ossia la percentuale media di oro fino usata nella lega, è di 996,2 e in numerosi casi si ha un titolo di 999,99.
Riguardo alle monete, esse appartengono a diversi periodi storici da fine Settecento in avanti e provengono da varie parti del mondo. A parte le poche esibite a Palazzo Koch nel Museo della moneta e in alcune tecniche del primo piano nobile, esse sono conservate nei caveaux in centinaia di sacchetti sigillati.
La Banca d’Italia è il quarto detentore di riserve auree al mondo, dopo la Federal Reserve statunitense, la Bundesbank tedesca e il Fondo monetario internazionale.
Ma tutto quest’oro è custodito nei sotterranei di Palazzo Koch, sede principale della Banca d’Italia a Roma? No, non tutto.
A Palazzo Koch ci sono 1.100 tonnellate, il 45% del totale. Il resto è custodito negli Stati Uniti (1.062 tonnellate, il 43%), in Svizzera (149 tonnellate, poco più del 6%), nel Regno Unito (141 tonnellate, poco meno del 6%).
Le ragioni di questa suddivisione sono storiche, discendono prevalentemente dai luoghi in cui l’oro è stato acquistato. Va considerato che trasportare decine o centinaia di tonnellate d’oro, anche a breve distanza, è impresa molto complessa e costosa.
La banca centrale tedesca, la Deutsche Bundesbank, rivelò nel 2012 la sua intenzione a far si che sul suolo tedesco, nei suoi forzieri di Francoforte, fosse custodita almeno metà delle riserve auree di sua proprietà. Fino a quel momento le riserve auree tedesche erano ospitate prevalentemente a New York, Londra e Parigi. Come ha sottolineato recentemente il membro del Consiglio Bundesbank Carl Ludwig Thiele in una intervista, non furono estranee a quella scelta considerazioni geopolitiche che sconsigliavano, prima dell’unificazione tedesca, di tenere le riserve auree geograficamente vicine al ‘nemico’.
La gigantesca operazione di rimpatrio, irta di difficoltà tecniche e rischi, si è conclusa nell’agosto 2017, con tre anni di anticipo rispetto al programma. L’oro tenuto in Francia (374 tonnellate) è stato riportato tutto in Germania, da New York sono giunte altre 300 tonnellate. Dopo l’operazione la situazione tedesca in fatto di localizzazione delle riserve auree è divenuta somigliante a quella italiana: circa metà dell’oro è nei forzieri della Bundesbank, il 37% è a New York, il 13% è a Londra (niente in Svizzera, niente più in Francia).
Se si visita il caveau della Banca della Riserva Federale di New York, come chiunque può fare previa prenotazione, si possono vedere mucchi di lingotti d’oro con una bandierina sopra che ne indica la proprietà, se italiana o tedesca e così via. La Fed di New York (come è confidenzialmente chiamata) ospita nei suoi forzieri molto dell’oro di proprietà di altre banche centrali o governi, è un servizio di custodia che svolge per conto del Sistema della Riserva federale americana. Ma come si fa ad essere sicuri che l’oro, soprattutto quello tenuto all’estero, sia effettivamente dove dovrebbe essere, che sia veramente oro e non, faccio per dire, cioccolato rivestito di carta dorata, e che se è oro abbia effettivamente il titolo (cioè la quota di oro puro) dichiarato?
Per l’oro che sta in casa le verifiche le fa innanzitutto la società di revisione incaricata di certificare il bilancio della Banca d’Italia, attualmente la Bdo Italia, che vinse l’appalto nel 2013. Il controllo è annuale e prevede la pesatura di un campione di lingotti. Verifiche all’estero sono sempre possibili sulla base di procedure concordate con le istituzioni custodi (la Fed a New York, la Banca d’Inghilterra, la Banca nazionale svizzera). Dagli ultimi controlli effettuati risulta confermata la corrispondenza dell’oro detenuto all’estero con il bilancio della Banca d’Italia.
La Bundesbank, in occasione del rimpatrio di svariate centinaia di tonnellate del suo oro a cui ho fatto prima cenno, ha addirittura fuso alcuni lingotti scelti a campione per poi risolidificarli. E’ stata documentata l’esatta corrispondenza dei lingotti fusi alle caratteristiche enunciate dai precedenti custodi (la Fed di New York e la Banca di Francia).
Insomma l’oro ufficiale detenuto dalle banche centrali, dalla Banca d’Italia in particolare, è ben conservato e controllato. A che cosa serve veramente è questione ancora in parte misteriosa.
Tutto questo ci conduce ad un altro fondamentale interrogativo: di chi è veramente l’oro delle banche centrali? In particolari, di chi è veramente l’oro della Banca d’Italia?
Sul piano giuridico la risposta è univoca: l’oro delle banche centrali è delle banche centrali. Nell’area dell’Euro la questione è ora definita dal trattato che l’ha istituita, il quale ha rango costituzionale nei paesi aderenti. Ciascun paese nell’area ha le sue norme istituzionali sul tema, ma queste sono dovunque del tutto armoniche con la previsione del trattato.
La Banca d’Italia è, per legge italiana, un istituto di diritto pubblico, che opera quindi nel pubblico interesse. Il diritto europeo e quello italiano le affidano il compito di essere la banca centrale dell’Italia nell’ambito del Sistema europeo di banche centrali. Ha la proprietà giuridica dell’oro, ma non può fare quello che vuole, non è come un ricco signore privato che possiede un gioiello. La gestione delle riserve auree deve rispettare le norme che regolano l’attività di una moderna banca centrale. In questo senso, da un punto di vista politico, in ultima analisi l’oro è del popolo: questo può sempre, attraverso le sue istituzioni rappresentative, cambiare le norme che disciplinano la banca centrale e la sua gestione delle riserve. Tenendo sempre presente l’adesione dell’Italia all’area dell’Euro e gli obblighi che ne conseguono. ’
Salvatore Rossi, Oro, Il Mulino, 2017